DELL’ARTE DELLE DONNE
Vi sono generazioni di donne che si sono fatte largo nell’universo maschile dell’arte con idee e con vocazioni che non hanno smentito la loro provenienza e hanno esaltato proprio alcune caratteristiche che appartengono più al genere femminile. Le artiste presenti in questa raccolta e intensa mostra collettiva, sicuramente hanno saputo mettere in evidenza la capacità analitica e la “pazienza” che contraddistingue le donne.
Carla Accardi, Renata Boero, Sara Campesan, Dadamaino, Giosetta Fioroni e Maria Lai, che hanno operato negli anni ’60/’70, sono state antesignane di quella trasformazione del ruolo sociale della donna, e hanno saputo perseverare nei loro percorsi individuali ottenendo un riconoscimento artistico chiaro e autonomo. Le loro opere non sono frutto dell’impeto o dell’improvvisazione, sono frutto di un lavoro meticoloso in cui l’attenzione e la variabile temporale hanno un peso sostanziale. Non è una questione certamente di linguaggio e di tecnica, si tratta di una disposizione a sviluppare una forte ricerca introspettiva e un’attenzione ai propri archetipi.
Per questo si tratta di una mostra di vere protagoniste dell’arte contemporanea italiana che hanno manifestato la loro poetica con rigore e con essenzialità, tanto da diventare esempi per le generazioni successive.
Se vi è uno “specifico femminile” nell’arte contemporanea e non solo, rimane per molti versi ancora una questione aperta.
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Mercoledì 18 Maggio alle ore 21, Chiara Belliti racconta in “Viaggi d’artista” la storia delle sei protagoniste della mostra
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DELL’ARTE DELLE DONNE
di Valerio Dehò
Certamente la rivoluzione avvenuta nell’arte contemporanea tra gli anni Sessanta e Settanta ha cambiato definitivamente il modo di fare arte e di essere artista. Non solo è stata determinante la simultaneità in tutto il mondo di movimenti e tendenze che si susseguivano a un ritmo vertiginoso, ma anche la capacità individuale dei singoli artisti di sviluppare un linguaggio personale, di inseguire l’originalità come punto massimo di espressione, di dare un proprio contributo anche alla società in cui vivevano. Pop art, arte concettuale, fotografia concettuale, arte povera, body art, Fluxus, arte ambientale e in Italia anche tutte le conseguenze dello Spazialismo e dell’arte nucleare, hanno provocato un capovolgimento dell’arte uscita malconcia dal secondo dopoguerra. La sperimentazione è stata la parola d’ordine, cambiare, rinnovarsi, non stare fermi sulle posizioni raggiunte: queste son state alcune parole d’ordine in quegli anni mitici e inarrivabili.
Poi soprattutto negli anni Settanta il tema del femminismo è stato dominante anche nell’arte contemporanea, pur se nello stesso tempo molte artiste hanno cercato di non avere sul proprio lavoro nessuna etichetta. La presenza femminile nelle avanguardie storiche aveva sempre subito l’esclusione da parte del maschilismo dominante, basti pensare al Futurismo o all’ esemplare emarginazione di Meret Oppenheim nel Surrealismo.
Le donne hanno portato nell’arte dei contenuti nuovi, rivoluzionari, hanno anche sviluppato un energia nuova e una capacità analitica e di coraggio che il mondo maschile spesso non conosce. Hanno saputo usare anche il proprio corpo come strumento di lotta sociale, di una rivoluzione dei costumi di vita e del ruolo della donna nella società, ma non solo. In ogni caso i tempi erano maturi per una ricognizione su questo ruolo, su queste presenze che ormai segnavano decisamente la scena dell’arte. Non a caso tra il 1980 e il 1981 il critico d’arte italiano Lea Vergine realizzò una mostra dal titolo “L’altra metà dell’avanguardia” che fu presentata a Milano, Roma e Stoccolma esibendo quattrocento lavori di oltre cento artiste europee, russe e americane, appartenenti alle avanguardie storiche; proprio quando, tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, il nuovo ruolo della donna si stava diffondendo in tutto il mondo.
E da questo punto di vista Carla Accardi è una figura emblematica non solo perché la sua partecipazione a Forma 1 alla fine degli anni Quaranta apriva le porte in Italia dell’astrazione e rompeva con la tradizione marxista della figurazione post espressionista, ma perché a metà degli anni Sessanta sperimenta le superfici plastiche con i sicofoil. Rimanendo pittrice è riuscita a uscire dalla pittura aprendo la strada ad altri artisti dopo di lei come i poveristi. Anche lei partecipò al movimento femminista aderendo al gruppo “Rivolta femminile”, ma soprattutto ha segnato con la sua pittura a 360 gradi un’adesione totale al dipingere come scelta irrinunciabile. Più legata a Fontana, Manzoni e al clima innovativo milanese tra anni Cinquanta e Sessanta, Dadamaino dai “Volumi”, all’ “Alfabeto della mente” degli anni Settanta e alle “Costellazioni” del 1981, ha seguito una linea non solo di azzeramento dell’opera, ma anche di ricerca di un linguaggio di segni autonomo. La sua scrittura “illeggibile” non solo ricorda Bruno Munari che le fu amico, ma rappresentava anche un momento di ricerca individuale attraverso cui manifestare il disagio per un allargamento dello iato tra l’artista e la partecipazione alla società e ai drammi del mondo. Alla Scuola di Piazza del Popolo di Angeli e Schifano appartiene Giosetta Fioroni che nel 1964 già viene inserita nella grande stagione della Pop art alla Biennale di Venezia. Compagna dello scrittore vicentino Goffredo Parise per vent’anni, ha frequentato gli ambienti del Verri e del Gruppo 63. La Fioroni ha sempre operato una pittura mediale e una ricerca ricca di riferimenti intellettuali oltre che di partecipazione sociale con uno sguardo sempre attento alla realtà. Ha sempre perfettamente rappresentato il versante italiano della Pop art sempre ricco di implicazioni e sfumature strutturate nella storia dell’arte. Anche Sara Campesan frequenta l’ambiente romano tra il 1969 e il 1973 dopo gli studi veneziani e certamente l’interazione colore-luce-movimento costituisce una delle dominanti della sua poetica. Artista complessa, la Campesan è troppo semplicistico definirla come esponente della optical, ha svolto ricerche in molte altre direzioni, sempre all’interno di una costruzione variabile e algoritmica dell’opera. Nel 1959 ha dato vita a uno spazio espositivo di sole donne e nel 1978 ha creato lo spazio “Verifica 8+1” a Mestre sempre nella logica che gli artisti devono non solo occuparsi del proprio lavoro, ma essere portatori di occasioni di aggregazione e di scambio culturale. E il 1970 data anche la prima mostra di Renata Boero, genovese stabilita a Milano dalla metà degli anni ottanta, in cui compaiono i “Cromogrammi”, sintesi di erbe, terre, materiali naturali che vengono mescolati e fusi tra di loro per costituire un’opera pittorica in cui l’olfatto, la vista e il tatto diventano un’unica sintesi. La Boero già negli anni Sessanta aveva abolito i limiti spaziali dell’opera che così diventa infinita, un reale work in progress. Il recupero della natura come totalità nella sua essenza di materia vivente, la pone su di un piano di sperimentazione in cui il colore si sposa con il dato alchemico di una trasformazione continua che l’artista può interrompere quando il risultato estetico si è consolidato. Anche le recenti “Germinazioni” pongono in risalto l’organicità della pittura, il pulsare di una materia vegetale che allontana ogni forma di rappresentazione e si fa opera in atto. Artista scomparsa nel 2013, Maria Lai è diventata il simbolo non solo della sua Sardegna, ma anche di un’arte fortemente legata all’antropologia, alla ricerca delle tecniche tradizionali e dei motivi iconografici relativi. I “Telai” degli anni Sessanta-Settanta ne sono una testimonianza, ma soprattutto le “Geografie” e i “Libri cuciti” degli anni novanta rappresentano il vertice di una poetica che ha trovato pienamente la propria cifra stilistica e un ruolo definitivo nell’arte contemporanea europea. La scrittura cucita, richiama la gestualità del costruire nel tempo, di legare i fili della memoria e della visione. E’ il simbolo della pazienza millenaria su cui si costruiscono le civiltà, dando valore al tempo come bene supremo a disposizione degli esseri umani.
E’ alla fine questa attesa e questo saper prendersi il tempo per pensare e vedere, che può essere un tratto comune di questa mostra. Saper aspettare che l’idea diventi opera attraverso il cucito (Maria Lai) o il disegnare sottili linee verticali perché diventino un linguaggio infinito (Dadamaino) o che la natura diventi parte integrante del processo artistico (Renata Boero), sono aspetti di una dimensione temporale non chiusa o limitata. Così come lo spazio quasi teatrale dell’opera per Giosetta Fioroni nasce dalla convergenza di sovrapposizioni di immagini, tempi e memorie, oppure l’idea di un’ opera d’arte che possa modificarsi nella sua fruizione, fa comprendere come per Sara Campesan l’opera resta aperta per interagire con lo spazio nel corso di una temporalità X non calcolabile e non prevedibile.
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